Tra le decine di affreschi che riempiono le pareti delle chiese rupestri materane ce n’è uno che mi ha sempre colpito in maniera particolare. Si tratta dell’affresco, raffigurante San Pietro Martire, che adorna la navata destra di San Nicola dei Greci (nell’immagine in alto). Datato dalla Grelle alla seconda metà inoltrata del XV secolo, è opera di un artista locale dalle innegabili capacità, che gli hanno valso la commissione di almeno altre due opere all’interno della Cattedrale di Matera. Alla sua mano sarebbero riconducibili, infatti, un altro San Pietro martire e un San Giuliano venuti alla luce sulla sulla parete della navata destra. Pur essendo piuttosto lacunosa nella parte centrale, la nostra immagine conserva tutte le caratteristiche principali dell’iconografia tradizionale del Santo veronese. Vestito con gli abiti del suo ordine, il frate domenicano esibisce i simboli della sua morte violenta: un coltello nel petto e una mannaia macabramente conficcata in profondità al centro del cranio. A suscitare la mia curiosità, tuttavia, sono stati soprattutto il suo sorriso e la sua espressione rilassata, quasi divertita, in netto contrasto con l’arma che gli spunta dalla tonsura.

San Pietro Martire nei dipinti tardo quattrocenteschi di G. Bellini (a sx) e C. Crivelli (a dx).

Posso capire la stoica sopportazione del dolore come affermazione della propria fede, oppure la pia accettazione del martirio, emozioni che artisti importanti e coevi come Giovanni Bellini (a sinistra) e Carlo Crivelli (a destra) hanno cercato di trasmettere nelle proprie interpretazioni del tema. Ma la gioia, francamente, mi era sempre parsa una reazione del tutto estranea all’esperienza del martirio, almeno fino a quando non mi sono imbattuto, più o meno casualmente, nel racconto della vita di San Pietro da Verona così come riportata nella Legenda Aurea di Iacopo da Varazze. Confratello domenicano di Pietro, nato a Genova intorno al 1228-29, Iacopo giunse ad occupare la carica di arcivescovo del capoluogo ligure. Da buon Frate Predicatore faceva del proselitismo e del contrasto all’eresia la sua principale missione, che espletò non solo a parole ma anche e soprattutto attraverso la sua opera letteraria, una delle più note e fortunate di tutto il medioevo (la più letta e tradotta dopo la Bibbia). In essa, tra le altre cose, racconta la vita di 153 santi, soprattutto martiri. Nella visione di Iacopo da Varazze la morte nella santità garantita dal martirio costituiva motivo di gioia in quanto momento di avvicinamento a Dio. Tale prospettiva eserciterà una forte influenza su quella dei suoi lettori, tra i quali possiamo certamente annoverare i domenicani committenti del dipinto di San Nicola dei Greci. Il complesso monastico era infatti di pertinenza delle monache Claustrali domenicane che nel XIII secolo si erano spostate nell’area extra muros dei Foggiali presso S. Maria La Nova (ora S. Giovanni Battista). Il dipinto, dunque, con ogni probabilità fa proprio e riporta il messaggio della Legenda Aurea. Tuttavia, mentre l’anonimo Maestro frescante ha cercato in qualche modo di addolcirlo grazie al sorriso del Santo, nell’agiografia duecentesca (che utilizza fonti essenzialmente coeve senza tralasciare i Santi Agostino, Ambrogio e Gregorio), tale messaggio è stato amplificato mediante iperboliche ricostruzioni delle gesta dei Santi che, ad un lettore moderno e laico, possono apparire a tratti grottesche.

Da buon domenicano Iacopo dedica un lungo capitolo alla figura di San Pietro da Verona, il primo martire del suo ordine. L’autore tiene in maniera particolare all’esaltazione di questa figura, direttamente legata al suo tempo e al suo mondo: nato circa vent’anni prima di lui (intorno al 1205), Pietro operò soprattutto in Lombardia, dove lo stesso Iacopo aveva ricoperto la carica di priore. Lo si evince già dai primi passaggi: nato in una famiglia di eretici, a sette anni appare già in grado di sbaragliarli in battaglie dialettiche. Nel racconto di Iacopo, insieme a San Domenico, fondatore dello stesso ordine, è forse il Santo ad aver compiuto più miracoli, tanto da vivo quanto (soprattutto) da morto. Curiosamente i due non si sarebbero limitati ai miracoli “tradizionali”, superando lo stesso Gesù nel numero di resurrezioni e moltiplicazioni di pani, ma ne avrebbero compiuti anche diversi di carattere più “pratico”, come l’apparizione della nube per rinfrescare gli spettatori dopo ore e ore di predicazione sotto il Sole (San Pietro) o il segno della croce per ripararsi dalla pioggia o far spuntare i soldi per il biglietto del traghetto (San Domenico). [Quanto a spettacolarità, tuttavia, la palma spetta senz’altro a San Donato diacono, in grado di: guarire infermi, esorcizzare indemoniati e soprattutto uccidere draghi con lo sputo (con buona pace di San Giorgio e della sua lancia). In fondo alla classifica San Biagio con la “guarigione” di un ragazzino che si stava soffocando con una spina di pesce e San Martino con la sua abilità di far tacere i cani che abbaiano.] Ma torniamo al martirio. Da giovane San Domenico avrebbe aspirato fortemente al martirio, giungendo a chiedere (invano) che gli amputassero pian piano arti e occhi e che fosse lasciato a rotolarsi nel suo sangue (sic!), o che gli fosse almeno concesso di vendere il suo corpo per risollevare le sorti di poveri e derelitti. Iacopo racconta anche (e soprattutto) la vita di Santi vissuti nell’epoca tardo-imperiale, quando i martirî erano all’ordine del giorno. Confortati dalla fede, i santi si prestavano volentieri e con gioia al martirio, che spesso prevedeva torture indicibili con fuoco e lame o, a volte, complicati marchingegni come le quattro ruote armate di seghe e chiodi che l’imperatore Massenzio fece costruire appositamente per Santa Caterina d’Alessandria. Ma nonostante tutti gli sforzi dei carnefici, spesso la sofferenza non arrivava: frecce, sassi e fuoco a volte tornavano indietro, con grossi rischi per gli astanti. Durante il martirio di Santa Caterina, per l’esplosione della summenzionata macchina ne sarebbero morti ben 4.000. Spesso l’unico metodo sicuro per uccidere i martiri era la decapitazione: un po’ come per i vampiri. Anche a quell’epoca, tuttavia, qualcuno, suo malgrado, scampava al martirio: è il caso del Santo anacoreta Antonio, che da giovane cercava di infilarsi tra i cristiani destinati al martirio dall’imperatore Massimiano, disperandosi quando i pagani glie lo negavano.

San Pietro fu più “fortunato” del fondatore del suo ordine: mentre si trovava sulla strada tra Como e Milano, il 12 Aprile 1252 fu infatti assassinato da sicari inviati da eretici càtari. Gli eretici, la versione medievale dei pagani, agli occhi del vescovo/frate domenicano Iacopo costituiscono una minaccia preoccupante per il suo mondo. Pietro da Verona, da essi ucciso a causa della sua militanza nella fede, diventa pertanto a tutti gli effetti un martire “nuovo”. Iacopo racconta che mentre lo ammazzavano lui continuasse imperterrito a tentare di convertire i suoi assassini. Pare che la sua inarrivabile abilità oratoria non fosse terminata con la sua vita terrena. In un altro episodio, puntualmente riportato nella Legenda e accreditato come miracolo, si narra di come un giorno un eretico ne stesse criticando le posizioni mentre mangiava in un’osteria, quando un boccone gli andò di traverso; boccheggiando riuscì a ritrattare le sue affermazioni e solo così potette deglutire e sopravvivere.  Non si predica con la bocca piena. Amen.


Per approfondire: A. Grelle (a cura di), Arte in Basilicata, Roma 2011; Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, Torino 1995; J. Le Goff, Il tempo sacro dell’uomo. La ‘Legenda aurea’ di Iacopo da Varazze, tr. it., Bari 2012.