Torniamo a parlare di dialetto materano. Questa volta, però, prenderemo in considerazione non semplici vocaboli ma espressioni, esclamazioni e modi di dire, di cui il vernacolo è ricchissimo. La selezione, infatti, è stata durissima. Come ho già avuto modo di spiegare nel mio primo post sull’argomento, la mia è una passione nata nel tempo, che ho appreso in parte “accademicamente”, studiando i libri sull’argomento e approfondendo, quando possibile, attraverso il dialogo con l’autore. Nonostante le apparenze, tuttavia, non sono solo una specie di sciorg (topo) di biblioteca, per quanto queste mi piacciano un sacco (ho fatto la tessera – n. 1861 – quando ero ancora alle medie e la biblioteca si trovava in via Cappuccini, attuale sede del Liceo Artistico, e i libri apparivano come per magia attraverso quel piccolo montacarichi… egghia quanto divago!). Comunque. Per fortuna appartengo ad una generazione cresciuta in giro per il quartiere, a portata di licch’l (grido) dal balcone. Anche se avessimo voluto giocare con i video games, per lo più eravamo costretti comunque ad uscire per andare alla saletta (la “sala giochi” o “ludoteca”), dove trovare capolavori come Bubble Bubble, Pac Man, Street Fighter II, Blood Bros ecc., ma anche biliardi e biliardini. Pur non essendone mai stato un accanito frequentatore, posso dire però che potevano essere un luogo di socializzazione e, vista la presenza di vari personaggi, in primis lo “Zio” – il gestore della saletta, un ottimo contesto per apprendere fin troppo colorite espressioni vernacolari.

Ripensandoci, in effetti, forse è meglio lasciar perdere quello che ho sentito nelle “salette”. Meglio rivolgersi ancora una volta al volume di Angelo Sarra. Sfogliandolo, mi sono accorto subito di quante, tra le espressioni a me note, non siano presenti, poiché parte più dello slang della mia generazione che del matarrà-s parlato 50 anni fa. Al contempo, molte di quelle presenti nel libro non le avevo mai sentite, essendo ormai quasi del tutto in disuso, se non forse tra le persone anziane. È il caso, ad esempio, di Abbuzz abbuzz!, recitata con i due pugni contrapposti, utilizzata per prendere in giro qualcuno in determinati contesti, che tuttavia, non avendo mai vissuto in prima persona, non riuscirei ad esprimere correttamente.

Questa volta procediamo con il count-down, anche se naturalmente il senso non è proprio quello di stilare una classifica.

10. Sortamà-j

sortama-j

Letteralmente “sorte mia”, ovviamente con accezione negativa: corrisponde all’italiano “ahimé”, che però, pur essendo molto più semplice, non si usa nella lingua parlata almeno dal XIX secolo. In alternativa si usava anche amèr’amma-j, cioè: la mia sorte è invero amara e meschina. Insomma, anche se non si direbbe, noi materani abbiamo una forte predisposizione alla teatralità e un innato senso drammatico. Personalmente l’ho sentito recitare infinite volte da mia nonna e, ancora di più, da sua sorella, zia Anna, che lo usa praticamente come intercalare quando le si racconta qualcosa.

Io: «Ciao zia, tutt’appost, sto giusto un po’ raffreddato».
Lei, con l’espressione di Cavaradossi alla sua ultima alba: «
Uam sortamà-j, cur fugghj!! e ce m’ha ffè a zia, ce m’ha ffè, mannegghia…».

 9. Rodd a’pplèt

Letteralmente “da Erode a Pilato”. Indica l’arte di fare lo scarica barile, come fecero Erode e Pilato con Gesù, venendo poi assunti a modello comportamentale dai burocrati di tutte le ere e le amministrazioni del mondo. Onestamente non l’ho mai sentita dire da anima viva, ma, dato che il senso è chiaro, ho voluto inserirla perché la trovo magnifica ed esemplificativa dell’abbondante utilizzo, in passato, di riferimenti biblici. Del resto per i contadini che vivevano nei Sassi la Bibbia era, con ottime probabilità, l’unico testo che potevano sperare di leggere, o che gli fosse letto da altri (il prete). Di conseguenza il racconto evangelico, di per sé ricchissimo di parabole e figure retoriche, restava, insieme alle nozioni agricole, culinarie e sociali che facevano parte del loro bagaglio culturale, l’unica fonte cui attingere per elaborare metafore, proverbi e modi di dire.

8. Cù-l i quòndr

Culo e vaso da notte. Un’immagine che altrove trasmette forse giusto uno stimolo per andare al bagno, soprattutto se reduci dalla combo caffé+sigaretta, felici di poter poi scaricare il tutto nelle fogne con un semplice gesto. A Matera no. Significa unione indissolubile, compatibilità perfetta: bread and butter, pane e burro, direbbero gli americani, culo e camicia, direbbero gli italiani (borghesucci che girano in giacca e cravatta, tsé). Ma, pensavano giustamente i materani di un tempo, lo scopo ultimo del culo non è quello di reggere i lembi della camicia: è un altro. Che, tra l’altro, è in grado di regalare molte più soddisfazioni.

7. Cùpr d’ c’chèt

cupr

 Se “Furia Cieca” (P. Noyce, 1989) ci ha insegnato qualcosa è che questo detto è vero: i ciechi menano mazzate che non si capisce. Basta solo trovare un maestro asiatico che ti insegni bene. Questo ci diede anche speranza: erano anni in cui l’alto tasso ormonale di noi maschietti comportava forti rischi di andare incontro ad entrambi i problemi, le mazzate (nel cortile della scuola, nel rione, e in generale ovunque ci fossero altri maschietti) e la cecità (soprattutto in bagno). Crescendo, tuttavia, ci si rende presto conto che chiudere gli occhi durante una rissa porta solo a farseli gonfiare. Ma anche, per fortuna, che “l’eros” rende liberi, non ciechi.

6. Sp’zzèt da mìnz

Giusto per restare in tema di violenza, questa espressione molto colorita (lett. “spezzato a metà”) si utilizza in numerose e diverse occasioni. In generale esprime l’augurio che il destinatario dell’improperio possa farsi molto male, rompendosi varie ossa. Tale desiderio può però essere reale, specie se dettato da un momento d’ira (c’ t’affìrr t’ì sp’zzè da mìnz – se ti prendo ti rompo le ossa) o di rancore (t’ sond ad acchiè sp’zzèt da mìnz – ti devono trovare…) o non reale, quando è pronunciato con tono scherzoso. Certo, a volte il confine è sottile, soprattutto quando c’è in mezzo un po’ di competizione. Per dire, vorrei chiedere al mio amico Donato “Fantasio” Lo Parco di dedicarmi una rovesciata martedì prossimo, sp’zzèt da mìnz! 

5. Iù-j

Come molti di voi sapranno, il dialetto materano è fortemente segnato da una caratteristica in particolare, cioè l’inversione vocalica: quasi sempre le “i” diventano “u” e viceversa, le “a” possono diventare “e” o anche “o” (una legge che non risparmia neanche l’atavica parola “mamma”: in materano mömm) e così via. Questo fatto mi ha sempre divertito, soprattutto nello spiegare il concetto agli amici giargianì-s, utilizzando di solito l’esempio classico la bbùrr / u bbìrr (la birra / il burro). Non avevo idea, tuttavia, che il fenomeno arrivasse persino a coinvolgere le esclamazioni più naturali: sei nato nei Sassi? Se ti fai male non puoi dire “AHIA!”, devi dire “Iù-j“! Non oso immaginare come avrebbero pronunciato, 50 anni fa, la parola “AIUOLA”.

4. Tùmm’r e P’cciè-n e la R’fezza puttè-n

Più che un espressione o modo di dire, in realtà trattasi di una sorta di filastrocca / formula, dotata di un significato apotropaico ma, al contempo, dettata dal senso pratico: si recitava nell’atto di cospargere l’olio sulla cialda dall’à-m’l ò-m’l (l’oliera dal beccuccio sottile), facendo tre giri veloci scanditi dalle parole della tiritera. In questo modo si risparmiava sull’olio, la cui dispersione era considerata, tra l’altro, un gravissimo presagio di malasorte. Timmari, Picciano e la Rifeccia sono località dell’agro materano, nessuna delle quali mi sento di giudicare dal punto di vista morale. Evidentemente qualcuno, invece, sulla Rifeccia la sapeva lunga…

3. A vègghj / ievègghj / evègghj

Si tratta di tre espressioni molto simili, il cui significato muta a seconda della vocale iniziale. Le prime due sono, in realtà, praticamente sinonimi e facilmente comprensibili. Letteralmente significano “hai voglia”, nel senso di abbondanza: ievegghj a dòrt d’ chèp a u parà-t (puoi dare tante testate al muro ma…). Con evègghj, nello slang contemporaneo diventato evò, si esprimeva invece entusiastica approvazione. Esempio:
– maggì a u c’ddèr? (andiamo alla cantina?)
– evègghj!
– ha pajè tì? 
(paghi tu?)
– ch’ cùss! (non credo proprio, amico)

Quanto invece alla ben nota espressione “egghia!“, pronunciata per esprimere stupore, immortalata da un fantastico cortometraggio di qualche anno fa e poi da un portale web, è un false friend.
I allàr a c’ appart’n? (e allora a chi appartiene, in senso etimologico e famigliare) vi chiederete voi. I c’ n’ sòcc ji-j? (E che ne so io?). Forse a mannegghia? Chiedete a lei.

2. Mò mer-j…

Ora muoio. Torniamo nella sfera del melodrammatico, tanto cara ai materani. Esiste anche una canzone tradizionale materana nella quale un bambino esprime tutta la sua sofferenza perché la mamma non vuole dargli “una cosa”. Recentemente è stata riproposta in una geniale versione metal, nella quale tutto il pathos e la valenza drammatica del lamento emergono prepotenti. In ogni caso, la mia versione preferita di questa espressione è quando essa è abbinata ad una parte del corpo. Esempio: ti fanno male le gambe in seguito ad una salita? A Matera non dirai banalmente “mi dolgono le gambe”, ma mò mer-j u jomm (sto morendo, le mie gambeeeehh). La schiena ti fa male per la giornata di lavoro nei campi? Mò mer-j u r’n (sto morendo, i miei reniiiiihhh). Ripeto, siamo un popolo dal forte senso del drammatico, altro che “sceneggiate napoletane”.

1. Gg’stìz-j t’ho bb’n

573_pulpfictionLett. “giustizia ti deve arrivare”. Ezechiele 25:17 (quello vero): «Farò su di loro terribili vendette, castighi furiosi, e sapranno che io sono il Signore, quando eseguirò su di loro la vendetta». Molto prima di Tarantino e Massimo Troisi (che giustamente se l’era segnato), a Matera ci si ricordava a vicenda che la giustizia è sempre in agguato. Tu puoi pensare di averla scampata. Crogiolarti nella falsa quiete della tua sporca coscienza, bbaccalè. Ma verrà. Verrà quel giorno, u diasùll (il dies irae), in cui, finalmente, la Giustizia Divina si abbatterà su di te.  Magari sotto le mentite spoglie di un paio di s’rd’ll’n dati com’è l’uso. E alla sch’rdùt (all’improvviso). 

PS: Non a caso, il mio libro preferito è Il conte di Montecristo, di A. Dumas père. Niente illuminazioni finali o mani sulla coscienza. G’stìz-j senza pietà su tutti. Altro che Ezechiele.

Mà, dauròzz. Stot’v bbùn.


È Primavera! Ora di regalarsi una visita guidata nei Sassi di Matera o sulla Murgia!