È da un po’ che mi sono ripromesso di affrontare il tema del vicinato (in materano: v’c’nònz), argomento che si presta ad essere indagato attraverso diverse discipline. In antropologia culturale e in sociologia, con questo termine si identifica un’unità sociale contraddistinta da contiguità residenziale, una piccola comunità che si forma tra abitanti di un nucleo di case, all’interno di uno spazio delimitato da confini non necessariamente fisici (può essere un cortile o un vicolo cieco, ma anche un gruppo di abitazioni dislocate lungo un viottolo aperto). Va da sé che, pur non essendo, il più delle volte, l’esito di una pianificazione urbanistica, quanto piuttosto un’evoluzione naturale e anarchica dell’insediamento umano, presenta caratteristiche inquadrabili attraverso le lenti e la semantica dell’architettura. Il vicinato rappresenta il modello tipico di insediamento all’interno dei Sassi di Matera, ed è stato dunque oggetto di studi a partire dal momento in cui Matera e i Sassi sono balzati al centro dell’attenzione di politici e studiosi, cioè nel secondo dopoguerra: dalle “inchieste” di De Rita e Tentori negli anni’50 agli studi degli architetti Rota, Restucci e Laureano negli anni ’90, passando per le ricerche storiche e antropologiche di (tra gli altri) Giuralongo, Fonseca, Demetrio e Guadagno tra gli anni ’80 e i ’90.
Naturalmente molti si sono interrogati sull’origine di tale modello insediativo. Roba da archeologi insomma, ma affrontata, ad oggi, soprattutto da architetti: Pietro Laureano, ad esempio, ne traccia l’evoluzione a partire dallo sfruttamento della morfologia naturale del territorio (le doline, il “pulo”), passando per gli insediamenti preistorici fino ad arrivare ai Sassi, aiutandosi attraverso il confronto con le civiltà rupestri sparse nel Mediterraneo.

Da archeologo, però, non mi ritengo pienamente soddisfatto. Sarebbe affascinante ripercorrere nel dettaglio le tappe evolutive di questo modello attraverso i secoli, pur affrontando le inevitabili difficoltà dovute alla natura stessa dell’architettura rupestre che, agendo “in negativo”, non lascia testimonianze stratigrafiche. Mi riprometto, dunque, di affrontare l’argomento in maniera più approfondita quanto prima. Intanto ho ricevuto, insieme ai numerosi presenti, diversi stimoli grazie al convegno che si è tenuto, il 24 marzo scorso, presso la Mediateca Provinciale di Matera, organizzato dall’Associazione MUV Matera, di cui mi pregio di essere membro fondatore e parte del Consiglio Direttivo.

In questo primo incontro hanno relazionato l’avvocato Raffaello De Ruggieri, l’architetto Renato Lamacchia, i linguisti Emanuele Giordano e Monica Dell’Aglio e il nostro Angelo Sarra, cultore e grande esperto di dialetto materano, introdotti da Nino Vinciguerra e Domenico Bennardi, presidente e vice presidente dell’associazione.

Matera, 1951 (Henry Cartier-Bresson). Vicinato nel Sasso Caveoso.

Si tratta di un argomento che, a Matera, non può essere affrontato senza che emerga, prepotente, il lato emozionale. Nel nostro caso questo ha preso subito il sopravvento, sospinto soprattutto dalla proiezione di Nino Vinciguerra, appassionato di storia locale nonché uno dei maggiori collezionisti di fotografie antiche nella zona. La commozione era visibile sui volti (diversi gli anziani, ex abitanti dei Sassi, presenti all’appuntamento) man mano che le immagini si avvicendavano sullo schermo, salutate spesso dai mormorii degli astanti nel riconoscere i luoghi e i personaggi. Nel suo breve intervento, Nino ha ricordato e sottolineato soprattutto alcune caratteristiche dell’abitare “in vicinato”: il senso di comunità, la solidarietà, la condivisione (valore fondante della stessa Associazione MUV). Un modo di vivere che gli abitanti dei Sassi hanno portato con sé anche nei nuovi quartieri disegnati per loro negli anni ’50 e che non hanno mai smesso di tentare di ricreare, anche quando “camminano la piazza” o fanno “lo struscio in mezzo al corso”, fermandosi ogni due passi a salutare e a chiacchierare.

E già, perché nonostante le comodità moderne (acqua, luce, gas), nei nuovi appartamenti i materani si sentivano “appartati”: invece nei Sassi quonda chiòcchj-r! (quante chiacchiere) si facevano, come ha ricordato De Ruggieri, citando una donna da lui incontrata nel ’71 quando, facendo il percorso inverso rispetto a (quasi) tutti gli altri, andava ad abitare nei Sassi.

Le chiacchiere erano il tessuto connettivo sociale del vicinato, un modo per unire (e spesso dividere) le donne, vera struttura portante della comunità (gli uomini erano quasi sempre fuori, nei campi o a u c’ddèr – la cantina – per un po’ di vino e n’m’zz’cucchj – la versione materana dell’aperitivo). Erano così importanti che una volta trasferiti nei nuovi quartieri, si presentò un problema di “salute pubblica”: non essendo più al riparo dal vento nei cortili dei vicinati, i più anziani si ammalavano perché prendevano freddo sostando a chiacchierare sui ballatoi aperti o sui balconi, come ha ricordato l’architetto Lamacchia.
Anche lui, invece di proporre una disamina tecnica della questione, ha scelto di condividere le sue esperienze personali, a partire dalla sua infanzia nel vicinato di Recinto Amendola (zona delle Fornaci), dove lui, di estrazione borghese e parlante italiano ma non dialetto, era detto “u’ for’stì-r“. Iscrittosi alla facoltà di architettura di Firenze, attraverso il confronto con i suoi colleghi e in particolare in seguito alla visione del “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, che usciva proprio in quegli anni, scoprì bruscamente il lato “oscuro” di Matera e del vicinato: la contiguità con gli animali, la povertà, le malattie. Dopo aver assunto inizialmente una posizione fortemente critica verso il modello materano, col tempo, unitosi nel frattempo ai colleghi Rota e Acito, l’ha rivalutato ancora, cercando di rielaborarlo e riproporlo in chiave moderna, trovandosi tuttavia spesso a combattere con una normativa edilizia ispirata sempre di più al principio della divisione strettamente funzionale degli spazi. Una concezione, con ogni evidenza, agli antipodi rispetto a quella del “vicinato”, dove la mancanza di soluzioni di continuità tra le abitazioni, le botteghe e le strade ne costituisce una delle caratteristiche fondamentali.

Di stampo più accademico, invece, gli interventi di Giordano e Dell’Aglio. Il primo non è entrato nello specifico del tema, offrendo tuttavia un utile sguardo introduttivo sulla toponomastica. Lo studioso ha voluto innanzitutto sottolineare il forte legame tra luoghi e linguaggi, entrambi plasmati in base alle esigenze di chi li ha creati, anche se i nomi dei luoghi possono diventare frutto del caso o addirittura dell’incomprensione, come avviene quando a stilare le mappe sono persone che non conoscono, appunto, i dialetti locali. Ma una stessa comunità può, nel tempo, perdere il ricordo del significato o dell’origine dei nomi associati ai luoghi o i nomi stessi, com’è successo a Matera. Per far fronte a questo problema, la ricercatrice Monica Dell’Aglio, dell’Università degli Studi della Basilicata, ha intrapreso uno studio (non ancora completato) sull’odonomastica locale, nel quale tenta di ridare un nome ai vicinati nei Sassi. Si tratta di un’impresa ardua, soprattutto a causa della scarsità di fonti documentarie, che pare ne citino ben pochi: il Vicinato di Sant’Angelo (in via S. Angelo, ai piedi della Civita su piazza S. Pietro Caveoso), un “Vicinato Grande” tra via Muro e via San Giacomo e un Vicinato “di Mincaniello” o “Minganiello” (forse da “Domenico”).

La relazione finale è stata affidata ad Angelo Sarra, che ha presentato, anche lui in via preliminare, gli esiti di una ricerca sulla toponomastica dialettale. L’incontro era iniziato sull’onda dei ricordi evocati dalle immagini ed è finito con quelli tirati in causa dai nomi con cui una volta si designavano luoghi, vicoli e vicinati: il grande rione di u Mòlv (Le Malve) e quello chiamato, con poca fantasia, Sott u Mòlv; la Madenn dù Quambalò-n cui si portavano i bambini che tardavano a camminare, gridando al miracolo quando questi si reggevano in piedi grazie alla recinzione che proteggeva l’edicola; la s’lògn d Sand Pì-t (Vicolo Solitario). Angelo ha anche voluto coinvolgere direttamente alcuni dei presenti, come il mitico Stacchìcc u’ Fattòr (Eustachio Di Cecca, voce storica della musica Folk materana) e le sue passeggiate tra la Vecch d’u’ uarvigghiò-n / vecch d’u’ Chengh (imbocco di via Bruno Buozzi, da cui una volta iniziava il grabiglione del Caveoso) e u P’rtòn Salvoggj, dietro u Licè-j (Palazzo Lanfranchi), alla ricerca del misterioso Vicinato di “Mincaniello”. Lo stesso Angelo si è commosso ripensando alla sua infanzia nel vicinato detto u Cas’lorij (vico San Giuseppe), salvo riprendersi subito per citare gustosi aneddoti sulla vita nel Barisano e in particolare nella zona detta u P’ndafì-c, dove si trova La stratt d Pau-l u pùrch.
Vi dico solo che c’entrano un omicidio, la scionn i ‘ppì-t – una nota prostituta – e una bellissima donna:  insomma, ci sono tutti gli ingredienti per un perfetto romanzo noir. Ma questa ve la racconto un’altra volta.


Per approfondire: P. Laurano, Giardini di pietra,  Torino 1993; A. Restucci, Matera, i Sassi, Torino 1991; A. Del Parigi, R. Demetrio, Antropologia di un labirinto urbano. I Sassi di Matera, Venosa 1994.